Il 20° anniversario delle giornate di Genova coincide con il compimento di un anno dal lancio dell’iniziativa “Società della Cura”.
Il movimento stroncato dalla repressione a Genova era già più avanti, sia come capacità di mobilitazione, sia come qualità. Si poneva in esplicita contrapposizione politica rispetto alla globalizzazione capitalistica, e i temi settoriali erano altrettanti capitoli di una critica complessiva. Ma il confronto è improponibile, troppe cose sono cambiate. Allora il mondo era molto più semplice. In questi 20 anni la finanziarizzazione dell’economia ha fatto passi da gigante, le tecnologie informatiche hanno rivoluzionato processi lavorativi, modelli di consumo, stili di vita. Alla svolta del millennio la globalizzazione coincideva con il trionfo incontrastato del “Washington consensus”, che sembrava aprire un nuovo secolo americano. Russia e Cina, le grandi sconfitte della guerra fredda, sembravano ansiose di essere accolte come parenti povere nel sistema economico globale che ruotava attorno agli USA. La Cina otteneva l’ingresso nel WTO pochi mesi dopo il G8, nel dicembre 2001, dopo anni di anticamera con il berretto in mano. “Il più grande mercato del mondo si apre alla penetrazione delle economie occidentali”, titolavano i giornali. Un abbaglio fatale. Da allora il mondo si è capovolto, forse questo sarà il secolo cinese. Non si tratta solo di una competizione geopolitica, ma della proposta di un’alternativa sistemica al modello liberaldemocratico, che potremmo definire di “dispotismo partecipativo”: un sistema in cui l’economia è tenuta al guinzaglio dalla politica, monopolizzata dal partito unico, un apparato specializzato nell’esercitare le funzioni sovrane, sia quelle operative, sia quelle simboliche. La categoria “globalizzazione” ha ancora senso nella realtà odierna? Che senso avrebbe oggi un movimento no-global, in un mondo sempre più multipolare, in cui stanno prevalendo le tendenze centrifughe?
Venendo al cortile di casa nostra, oggi non è più possibile considerare i movimenti come l’ala sinistra, combattiva e alternativa, di un largo schieramento democratico, comprendente anche la sinistra parlamentare, sensazione invece molto diffusa agli inizi del XXI secolo. Ora siamo soli. Tra noi e l’intero sistema politico ufficiale è calata una cortina di ferro, per dirla alla Churchill. Il referendum dell’acqua l’ha certificato, e tutto quello che è venuto dopo, negli ultimi 10 anni, l’ha ribadito con modalità sempre più inequivocabili.
Possiamo contare solo sulle nostre forze. Se è così, ed è così, la SdC rappresenta l’estremo tentativo di mobilitare tutte le risorse in campo, che comunque non sono poche, né di scarso valore, per avviare un processo capace di valorizzarne tutte le potenzialità fino a ribaltare la situazione. Dobbiamo crescere, è possibile. Non è una fede irrazionale, qui non parla l’ottimismo della volontà e simili frutti della disperazione, ma una valutazione accurata, serena e per quanto possibile obiettiva dei nudi fatti. Il sistema dominato da una finanza avvitata in una spirale diretta verso il nulla è molto più fragile di quanto non sembri. Il controllo esercitato dagli USA sul suo sistema di alleanze è precario, e ora si vede chiaramente come le guerre asimmetriche (Vietnam, Afganistan…) siano regolarmente perdute dalla superpotenza con i piedi di argilla.
Un cambiamento di rotta è possibile, purché le energie e le intelligenze disponibili non vengano sprecate in sforzi improduttivi e frustranti, disperse in mille rivoli e rivoletti separati. Purché le “nostre” forze non siano solo quelle degli attuali attivisti, ma per “nostre” si intenda “del popolo”, un popolo oggi, ma non da oggi, abbandonato da tutti, un popolo di cui nessuno si riconosce parte, a cui nessuno vuole appartenere, come dimostra il comunissimo uso sprezzante di “gente” per rivendicare la propria individuale estraneità, anzi avversione, a quella massa irrazionale, demente, preda dei peggiori istinti, che ognuno associa all’idea di popolo. Tutti pensano di far parte quanto meno della classe media, se non per effettiva capacità economica, almeno per capacità di giudizio e nobiltà d’animo. Ignorando forse che la cd “classe media” è oggettivamente parte del popolo.
Ribaltare la situazione si può, a patto di prendere sul serio l’idea di “società della cura”. Ossia l’idea di un’organizzazione sociale ordinata a porre ogni risorsa al servizio dello sviluppo umano. La nostra politica consiste nel mostrare, come nel Pranzo di Babette, che felicità e virtù (capacità di produrre quanto serve alla necessià materiali della vita) si possono sposare. Che possiamo avere tutto quato serve senza distruggere la naturale vitalità dell’essere umano, le sue/nostre riserve di allegria, il suo/nostro bisogno di gioia e socialità. La politica nostra non deve essere una dismal science (scienza triste, definizione di economia secondo Paul Krugman). Non bisogna puntare sugli aspetti tecnici, forse nell’inconscio desiderio di essere presi sul serio dai decisori, di mostrarci alla loro altezza, anzi ancora meglio, più barbosi, punitivi, opprimenti, savonaroliani. La preparazione tecnica è necessaria, ma la proposta politica nasce e si nutre del disagio e della condizione vissuta ed espressa dalle persone, che quindi si attivino con la loro creatività sperimentando la bellezza del perseguire scopi comuni, di cui si comprende la funzione in rapporto con le nostre vite. L’obiettivo concreto può anche non essere raggiunto, ma la comunità che si è creata e i processi trasformativi attivati hanno mostrato che è possibile una vita felice, una relazione con altri disinteressata, umana, di vera amicizia, per una vita “piena di guai”, cioè di senso. Questo e non altro è il significato di “società della cura”. Che non può ridursi a semplice operazione intellettuale, contemplazione di una raggiunta completezza teorica, ma deve investire le nostre pratiche. O è questo, o non è niente.
Il fulcro della nostra strategia dev’essere quello implicito nella società della cura: partire dalle persone, dal loro/nostro disagio, dai loro/nostri desideri, dalle loro/nostre aspettative. E qui bisogna dissipare un equivoco. Ciò non significa affatto accettare tutto quello che viene, purché venga dal “popolo”. Al contrario. Noi come parte del popolo abbiamo tutto il diritto di organizzarci e di affermare le nostre idee. Si tratta di impostare un diverso terreno di lotta, in cui le ragioni dello sviluppo umano possano competere alla pari con quelle del profitto e dello sviluppo economico fine a sé stesso. Si tratta di rifiutare una modalità di confronto in cui le ragioni dello sviluppo umano sono inevitabilmente perdenti. Il punto di partenza dev’essere la condizione delle persone, ossia ciò in cui siamo tutti competenti, le politiche vengono di conseguenza. “Vengono di conseguenza”, NON “vengono ignorate”. Ma mutando l’ordine dei fattori, il risultato, in questo caso, cambia.
Non bisogna farsi condizionare dal timore del contagio populista. La nostra politica, orientata a favorire percorsi di autonomia, consapevolezza, sviluppo delle capacità relazionali, come fondamenti di una politica autenticamente democratica, è il migliore, probabilmente l’unico davvero efficace, antidoto al populismo demagogico, interessato e manipolatore praticato in modi diversi da tutte le forze politiche.
Bisogna invertire le priorità: prima le persone, singole e organizzate; poi le istituzioni.
L’agenda politica va costruita pazientemente a partire dall’ascolto, e non dalle nostre analisi più o meno razionali. Il nostro scopo prioritario non è vincere il confronto con la controparte istituzionale, cosa oltretutto impossibile con questi rapporti di forza, ma costruire un movimento popolare capace di andare al confronto con sufficienti energie e consapevolezza.
Bisogna arrivare al punto che il confronto/scontro non sia tra un pugno di attivisti (anche supportati da migliaia di firme che in termini reali significano ben poco, come abbiamo già sperimentato) e le controparti governative, ma tra un movimento realmente popolare e le controparti governative. A quel punto si potranno riconsiderare la prospettiva elettorale e la democrazia partecipativa.
Una tale strategia, basata prioritariamente sulla “conversione” delle persone tramite ragionate esperienze e azioni collettive, piuttosto che sulla richiesta di provvedimenti legislativi o atti di governo (peraltro quasi mai ottenibili) non significa affatto lasciare spazio all’improvvisazione, talvolta confusa con la spontaneità. Significa al contrario intensificare la ricerca, il dibattito interno ed esterno e l’organizzazione. Il pluralismo e la maieutica richiedono più preparazione e organizzazione, non meno. Più rigore nelle analisi e nell’elaborazione delle politiche, non meno.
Questi 20 anni non sono stati sprecati, anzi. Sta a noi comprendere e valorizzare gli insegnamenti che vengono da Genova 2001 e dagli eventi successivi. L’idea della società della cura si pone in continuità con le analisi e le proposte di allora. Ma con la maggiore consapevolezza che viene dall’esperienza e dal sacrificio di chi ha vissuto quegli eventi.
10 luglio 2021 Pino Cosentino Attie occidentali”, titolavano i giornali. Un abbaglio fatale. Da allora il mondo si è capovolto, forse questo sarà il secolo cinese. Non si tratta solo di una competizione geopolitica, ma della proposta di un’alternativa sistemica al modello liberaldemocratico, che potremmo definire di “dispotismo partecipativo”: un sistema in cui l’economia è tenuta al guinzaglio dalla politica, monopolizzata dal partito unico, un apparato specializzato nell’esercitare le funzioni sovrane, sia quelle operative, sia quelle simboliche. La categoria “globalizzazione” ha ancora senso nella realtà odierna? Che senso avrebbe oggi un movimento no-global, in un mondo sempre più multipolare, in cui stanno prevalendo le tendenze centrifughe?
Venendo al cortile di casa nostra, oggi non è più possibile considerare i movimenti come l’ala sinistra, combattiva e alternativa, di un largo schieramento democratico, comprendente anche la sinistra parlamentare, sensazione invece molto diffusa agli inizi del XXI secolo. Ora siamo soli. Tra noi e l’intero sistema politico ufficiale è calata una cortina di ferro, per dirla alla Churchill. Il referendum dell’acqua l’ha certificato, e tutto quello che è venuto dopo, negli ultimi 10 anni, l’ha ribadito con modalità sempre più inequivocabili.
Possiamo contare solo sulle nostre forze. Se è così, ed è così, la SdC rappresenta l’estremo tentativo di mobilitare tutte le risorse in campo, che comunque non sono poche, né di scarso valore, per avviare un processo capace di valorizzarne tutte le potenzialità fino a ribaltare la situazione. Dobbiamo crescere, è possibile. Non è una fede irrazionale, qui non parla l’ottimismo della volontà e simili frutti della disperazione, ma una valutazione accurata, serena e per quanto possibile obiettiva dei nudi fatti. Il sistema dominato da una finanza avvitata in una spirale diretta verso il nulla è molto più fragile di quanto non sembri. Il controllo esercitato dagli USA sul suo sistema di alleanze è precario, e ora si vede chiaramente come le guerre asimmetriche (Vietnam, Afganistan…) siano regolarmente perdute dalla superpotenza con i piedi di argilla.
Un cambiamento di rotta è possibile, purché le energie e le intelligenze disponibili non vengano sprecate in sforzi improduttivi e frustranti, disperse in mille rivoli e rivoletti separati. Purché le “nostre” forze non siano solo quelle degli attuali attivisti, ma per “nostre” si intenda “del popolo”, un popolo oggi, ma non da oggi, abbandonato da tutti, un popolo di cui nessuno si riconosce parte, a cui nessuno vuole appartenere, come dimostra il comunissimo uso sprezzante di “gente” per rivendicare la propria individuale estraneità, anzi avversione, a quella massa irrazionale, demente, preda dei peggiori istinti, che ognuno associa all’idea di popolo. Tutti pensano di far parte quanto meno della classe media, se non per effettiva capacità economica, almeno per capacità di giudizio e nobiltà d’animo. Ignorando forse che la cd “classe media” è oggettivamente parte del popolo.
Ribaltare la situazione si può, a patto di prendere sul serio l’idea di “società della cura”. Ossia l’idea di un’organizzazione sociale ordinata a porre ogni risorsa al servizio dello sviluppo umano. La nostra politica consiste nel mostrare, come nel Pranzo di Babette, che felicità e virtù (capacità di produrre quanto serve alla necessià materiali della vita) si possono sposare. Che possiamo avere tutto quato serve senza distruggere la naturale vitalità dell’essere umano, le sue/nostre riserve di allegria, il suo/nostro bisogno di gioia e socialità. La politica nostra non deve essere una dismal science (scienza triste, definizione di economia secondo Paul Krugman). Non bisogna puntare sugli aspetti tecnici, forse nell’inconscio desiderio di essere presi sul serio dai decisori, di mostrarci alla loro altezza, anzi ancora meglio, più barbosi, punitivi, opprimenti, savonaroliani. La preparazione tecnica è necessaria, ma la proposta politica nasce e si nutre del disagio e della condizione vissuta ed espressa dalle persone, che quindi si attivino con la loro creatività sperimentando la bellezza del perseguire scopi comuni, di cui si comprende la funzione in rapporto con le nostre vite. L’obiettivo concreto può anche non essere raggiunto, ma la comunità che si è creata e i processi trasformativi attivati hanno mostrato che è possibile una vita felice, una relazione con altri disinteressata, umana, di vera amicizia, per una vita “piena di guai”, cioè di senso. Questo e non altro è il significato di “società della cura”. Che non può ridursi a semplice operazione intellettuale, contemplazione di una raggiunta completezza teorica, ma deve investire le nostre pratiche. O è questo, o non è niente.
Il fulcro della nostra strategia dev’essere quello implicito nella società della cura: partire dalle persone, dal loro/nostro disagio, dai loro/nostri desideri, dalle loro/nostre aspettative. E qui bisogna dissipare un equivoco. Ciò non significa affatto accettare tutto quello che viene, purché venga dal “popolo”. Al contrario. Noi come parte del popolo abbiamo tutto il diritto di organizzarci e di affermare le nostre idee. Si tratta di impostare un diverso terreno di lotta, in cui le ragioni dello sviluppo umano possano competere alla pari con quelle del profitto e dello sviluppo economico fine a sé stesso. Si tratta di rifiutare una modalità di confronto in cui le ragioni dello sviluppo umano sono inevitabilmente perdenti. Il punto di partenza dev’essere la condizione delle persone, ossia ciò in cui siamo tutti competenti, le politiche vengono di conseguenza. “Vengono di conseguenza”, NON “vengono ignorate”. Ma mutando l’ordine dei fattori, il risultato, in questo caso, cambia.
Non bisogna farsi condizionare dal timore del contagio populista. La nostra politica, orientata a favorire percorsi di autonomia, consapevolezza, sviluppo delle capacità relazionali, come fondamenti di una politica autenticamente democratica, è il migliore, probabilmente l’unico davvero efficace, antidoto al populismo demagogico, interessato e manipolatore praticato in modi diversi da tutte le forze politiche.
Bisogna invertire le priorità: prima le persone, singole e organizzate; poi le istituzioni.
L’agenda politica va costruita pazientemente a partire dall’ascolto, e non dalle nostre analisi più o meno razionali. Il nostro scopo prioritario non è vincere il confronto con la controparte istituzionale, cosa oltretutto impossibile con questi rapporti di forza, ma costruire un movimento popolare capace di andare al confronto con sufficienti energie e consapevolezza.
Bisogna arrivare al punto che il confronto/scontro non sia tra un pugno di attivisti (anche supportati da migliaia di firme che in termini reali significano ben poco, come abbiamo già sperimentato) e le controparti governative, ma tra un movimento realmente popolare e le controparti governative. A quel punto si potranno riconsiderare la prospettiva elettorale e la democrazia partecipativa.
Una tale strategia, basata prioritariamente sulla “conversione” delle persone tramite ragionate esperienze e azioni collettive, piuttosto che sulla richiesta di provvedimenti legislativi o atti di governo (peraltro quasi mai ottenibili) non significa affatto lasciare spazio all’improvvisazione, talvolta confusa con la spontaneità. Significa al contrario intensificare la ricerca, il dibattito interno ed esterno e l’organizzazione. Il pluralismo e la maieutica richiedono più preparazione e organizzazione, non meno. Più rigore nelle analisi e nell’elaborazione delle politiche, non meno.
Questi 20 anni non sono stati sprecati, anzi. Sta a noi comprendere e valorizzare gli insegnamenti che vengono da Genova 2001 e dagli eventi successivi. L’idea della società della cura si pone in continuità con le analisi e le proposte di allora. Ma con la maggiore consapevolezza che viene dall’esperienza e dal sacrificio di chi ha vissuto quegli eventi.
10 luglio 2021 Pino Cosentino Attac